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ricordi

Un san Nicolò energico e un Maimonide comunista

24/12/2015

di Reinhold C. Mueller

Ritorniamo a san Nicolò, ai ricordi intorno alla festa e alle leggende intorno al santo, pubblicando il testo (rivisto per l’occasione) di un discorso d’auguri pronunciato da Reinhold Mueller presso il dipartimento di studi storici dell’università di Venezia nel dicembre 2014. All’inizio dell’anno nuovo torneremo sul tema, con un altro saggio, più lungo, di Mueller: allora, appassionati e curiosi delle leggende di san Nicolò, continuate a seguirci.

Comincerò questo discorso da Babbo Natale, nelle sembianze che ormai ci sono familiari: come si sa, questa immagine è nata dalla pubblicità della Coca Cola nel 1930 circa, e da allora è rimasta praticamente inalterata. I miei genitori con le mie tre sorelle sono emigrati dalla Germania negli Stati Uniti proprio negli anni trenta e in famiglia non era mai piaciuto questo Nicholaus – o Santa Claus – conciato in quella maniera. Abbiamo sempre festeggiato la vigilia di san Nicolò il 5 dicembre andando in giro attorno al tavolo da pranzo, con dei piatti vuoti in mano, cantando una canzone gioiosa in onore del santo. Finita la canzone, si metteva giù il piatto al proprio posto sperando che il santo venisse durante la notte. È sempre venuto… per fortuna nostra, e così la mattina successiva trovavamo i piatti pieni di biscotti di tradizione tedesca che mia madre aveva impiegato mesi a preparare e a nascondere da noi figli.

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Archiviato in: La città invisibile, Reinhold Mueller Etichettato con: ricordi, san Nicola, storiografia

I cachi di San Nicolò

07/12/2015

di Maria Turchetto

Ancora su San Nicolò. In occasione della festa, Maria Turchetto ci ha mandato un ricordo relativo a una tradizione introdotta tra le due guerre dalla bisnonna che, per i bambini del paese, mise insieme il santo e i cachi. Con una riflessione sulla teoria evoluzionista di Darwin.

Cent’anni fa (sì, proprio cent’anni fa: nel 1915) la mia bisnonna piantò tre alberi di cachi. Alberi esotici a quei tempi e da quelle parti, ma la mia bisnonna Giovannina era un’innovatrice. Figuratevi che fu la prima in paese a installare un vero WC, un “vaso sanitario chiuso ad acqua”. Era più che un’innovatrice, la definirei un fulgido esempio di “imprenditore-innovatore” schumpeteriano. Fondò un negozio in cui si poteva comprare di tutto, le giovani coppie di sposi potevano trovarci le vere nuziali come i letti e i materassi, oltre naturalmente alla tela per lenzuola, asciugamani, tovaglie, insomma tutto il corredo.

Ma questa è un’altra storia.

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Archiviato in: La città invisibile, Maria Turchetto Etichettato con: ricordi, san Nicola

In memoria di Guido Bertacco. Una lettera a storiAmestre

10/11/2015

di Gianni Sartori

Gianni Sartori ci invia di tanto in tanto alcuni commenti, sempre interessanti. Abbiamo deciso di pubblicare con maggiore risalto quello che questa mattina ha inviato a noi e ad alcuni altri siti (tra gli altri quello di “canzoni contro la guerra”), in memoria di Guido Bertacco, scomparso nel marzo 2015.

Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento Anarchico Vicentino) prendesse l’iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli… E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin. Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati…

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Archiviato in: Gianni Sartori, La città invisibile Etichettato con: anarchismo, Guido Bertacco, ricordi, Vicenza

Una mela contro un carrarmato: l’8 settembre di Gino Canepa. Da un libro di Manlio Calegari

07/09/2015

a cura della redazione del sito sAm

In occasione dell’8 settembre 2015, riprendiamo alcuni ricordi di Gino Canepa pubblicati di recente da Manlio Calegari in un libro di cui abbiamo già parlato sul nostro sito. Nel 1943 Canepa aveva circa 22 anni ed era imbarcato sulla nave da guerra Vivaldi, rientrata a Genova, da Napoli, poco prima dell’armistizio. La sera del 7 settembre, Canepa, insieme a un amico, riesce a “piantare tutto”: sin da luglio aveva l’idea di disertare. Per lui la guerra finì lì.

I brani sono tratti rispettivamente: dal capitolo “Muratori, villani, camalli, operai: storia di Gino Canepa raccontata da lui stesso”, frutto del montaggio delle interviste fatte a Canepa da Calegari negli anni Settanta; e dal capitolo “L’eredità”, dove è presentato il piccolo “archivio di famiglia” di Canepa, fatto di lettere e documenti, che Calegari recuperò dopo la morte di Gino, nel 1991. Le note sono di Calegari: dove sono riportati, tra le altre cose, i ricordi relativi all’8 settembre di un altro marinaio imbarcato sulla Vivaldi, Battista Manente.

1. Storia di Gino raccontata da lui stesso

Assumevano molti ragazzi [all’Ansaldo San Giorgio]; degli assunti di allora ci siamo un finimondo ancora oggi. Poco dopo è cominciata la lavorazione per la guerra: molti ci sono andati e sono morti. Un finimondo anche lì: credo che il 70, forse l’80% dei ragazzi assunti nel ’37, ’38, ’39 è morto. Quelli di leva partivano tutti, in marina: o cannonieri o mitraglieri o artificieri. Gli aggiustatori li facevano artificieri e gli altri li mandavano alla scuola di Pola per diventare mitraglieri. Poi ti imbarcavi. La maggioranza è morta sul Lombardia, un mercantile che faceva base a Napoli e che come altri mercantili era dotato di due o tre mitraglie. I mercantili li buttavano tutti a fondo. Imbarcarsi sul Lombardia allora voleva dire campare un viaggio o due e poi lasciarci la pelle. Anche io ero imbarcato, ma su una nave da guerra, il Vivaldi. Ci ho fatto sopra un annetto poi, prima dell’8 settembre sono venuto via. Casino della madonna, disertore. Poi col tempo si sono calmati, chissà come mai. Era la fine d’agosto e con la nave siamo venuti a Genova per dei lavori. Eravamo tutti a bordo e alla sera arriva un ammiraglio, mi pare Bianchini – io non ne avevo mai visto uno – butta il suo berretto lì e dice: “Io vi aspettavo a Genova con ansia ma ora devo darvi una brutta notizia. Dovete partire immediatamente: una cosa breve, poi tornerete e io organizzerò una festa per voi…”1. Quando l’ho sentito, con gli occhi ho cercato uno che ne avevamo già parlato. Ha alzato solo un po’ il sopracciglio: voleva dire “ora”. Come eravamo, in tenuta da lavoro, abbiamo preso lo scalandrone e portati via u belin. Non ci hanno più visto.

Che bisognava venire via dalla nave, era facile da capire. Ne avevamo parlato, eccome. Il problema era metterlo in pratica. A darci la spinta erano stati i siciliani: quando gli americani sono sbarcati in Sicilia, loro sono stati i primi a andarsene. A Napoli, quando si sentiva di gente di altre navi che avevano portato via u belin, c’era sempre quello che usciva a dire “e noi quando è che ce ne andiamo”, e altre frasi così. La guerra era persa ma si faceva ancora in tempo a lasciarci la pelle. Poi per noi era venuta fuori questa fortuna di arrivare proprio a Genova. Ci stavamo organizzando quando è venuto il discorso dell’ammiraglio: partenza immediata. Questione di secondi e la nave veniva sigillata. Guai a andare in cabina a prendere qualcosa; via subito: noi abbiamo fatto così.

Da Genova la nave è andata verso Sud. È passata nelle bocche di Bonifacio nel mentre che è successo l’8 settembre; i tedeschi ci hanno mollato due o tre cannonate; andata a fondo. Morti tutti o quasi. Una decina li hanno presi gli americani e li hanno portati a Bari, quelli si sono salvati. Altri venti o venticinque, di duecento che ci eravamo, li hanno presi i tedeschi e portati in Germania. Su duecento si saranno salvate 15 persone2.

Io invece me ne stavo qui, nella villa, nella parte in alto. Da casa mi mandavano da mangiare; zappavo e pascolavo una capra. A Pola avevo fatto una vera scuola e mi sentivo tranquillo: avevo imparato a sparare bene, non ero un inesperto. Non so se si può dire ma avevo la tranquillità del guerriero. Se vengono mi trovano, dicevo.

Subito dopo l’8 settembre, dopo che erano arrivati i tedeschi, sono sceso giù in piazza, a Rivarolo, mentre c’era il mercato. C’erano quattro o cinque carri armati; io ho preso una mela da un banco e, come per gioco, gliel’ho tirata. Non vado a prendere una torretta proprio in centro? Quello che spuntava fuori ha girato i cannoni verso la piazza. Una paura della madonna: tutti a correre via. Anch’io, piano ma me la sono filata. È allora che ho capito che era cambiata. Perché fino a quel momento i tedeschi mi erano sembrata gente innocua. A Napoli se per caso ci rompevano u belin li mandavamo a quel paese come niente. Mi sembravano delle beline; tanto da tirarci delle mele. Roba da incoscienti.

2. Manlio Calegari legge e presenta le lettere spedite, nell’estate 1943, da Gino Canepa ai genitori

La situazione cambia a luglio: il 10 luglio 1943 il Vivaldi in missione in mare viene attaccato da alcuni aereosiluranti ed evita fortunosamente il disastro. Gino al rientro in porto (16.7.43) ha avuto conferma dello sbarco alleato in Sicilia avvenuto pochi giorni prima, il 10 luglio. È la fine dei dubbi. “Conoscete il mio genere di lavoro, fin ora è stato abbastanza facile e spero lo sarà ancora per l’avvenire come può essere che si alegerisca ancora di più. Ma l’avenire è pieno di incognite quindi potrebbe anche pegiorare in questo caso io ho pensato di piantare tutto e tornarmene lì da voi; ma so benissimo che anche lì la vita sarebbe dura, forse più di qua atualmente; vorrei tuttavia sapere da voi se secondo il vostro parere questa sarebbe una cosa posibile o no… È sempre meglio concordiarci nelle nostre idee anche se queste passano appena per la mente…”.

Il messaggio è esplicito, una sfida alla censura. A quindici giorni di distanza con il 25 luglio di mezzo, Gino torna alla carica (1.8.43). “Diversi giorni fa vi scrissi una lettera che vi facevo nota che io ero anche disposto a piantare qui tutto e venire a vivere lì, se non assieme a voi perché sarebbe una cosa difficile, almeno nelle vicinanze. Volevo da voi un parere e più che altro sapere se troverei la maniera di vivere o se a vostra vista sarebbe impossibile. Del resto anche questo mio collega sarebbe di questo parere e ne ha già parlato a casa, volendo potresti anche consigliarti con loro, ma credo che questo sia una cosa inutile. Dall’altra lettera non ho avuto alcuna risposta in proposito, certo che o non avete ricevuto la mia o non avrò ricevuto la vostra, speriamo che abbia un esito migliore questa. Il cognome della famiglia di questo mio amico si chiama Focacci…”.

Il 6 settembre alle 10 di mattina il Vivaldi, in rada a Pozzuoli – più defilata rispetto a Napoli sottoposta a bombardamenti continui – è raggiunto dall’ordine di partenza e inizia i preparativi sotto il fuoco degli incursori americani. Alle 15,45 prende la rotta di Genova dove giunge alle 8 di mattina del 7, in Arsenale. Il clima è disteso: si parla di permessi, addirittura di 5 o 6 giorni, e si resta in attesa che il comandante li firmi ma a sera del comandante e dei permessi ancora non c’è traccia. Sono tutti in mensa quando arriva l’ordine di adunata. Sul ponte a parlare è l’ammiraglio Biancheri. Fa la storia delle glorie del Vivaldi e si congratula con loro ma, aggiunge, è costretto a rimandare la festa prevista per il loro arrivo a Genova: dovranno iniziare una missione importantissima dopo di che avranno riposo e licenze. Subito dopo la nave inizia le operazione d’imbarco dei materiali, acqua, combustibile ecc. che proseguono la mattina dell’8. Alla sera, attorno alle 20, arriva la notizia dell’armistizio: urla di giubilo, pianti e abbracci. Alle 21 però il Vivaldi salpa egualmente per quello che sarà il suo ultimo viaggio. Direzione La Spezia e poi Civitavecchia dove dovrebbe imbarcare il re e la corte in fuga da Roma. Avendo il re preferito la strada di Pescara, il Vivaldi cambia rotta e si dirige verso la Maddalena per unirsi ai resti della flotta militare italiana diretti a Derna, in Libia, scelta per consegnarsi al nemico ed uscire dalla guerra. All’altezza dell’Asinara, cannoneggiato e bombardato dai germanici, il Vivaldi affonda. Una novantina i morti; alla maggioranza dei superstiti, meno di duecento, tocca l’internamento in Germania. Gino e Focacci, l’amico “acquaiolo”, con cui da tempo aveva progettato l’abbandono della nave, non erano più a bordo. Se l’erano filata, subito dopo il discorso dell’ammiraglio, la sera del 7. “Stava ancora parlando che lui, Focacci, mi ha guardato e ha fatto un segno così, col sopracciglio; ha inclinato un po’ la testa, una cosa minima. C’era un gran remescio, avevamo la tenuta di fatica, abbiamo preso lo scalandrone e via, siamo andati”3.

Gino aveva passato l’inverno tra ’43 e ’44 nella villa. Non in casa ma “fuori”, nelle “tane” che per l’occasione aveva allestito qua e là. In una di queste, a marzo del ’44, gli aveva fatto compagnia il cugino Luciano Borneto, scampato fortunosamente al rastrellamento della Benedicta. Assieme per tre o quattro settimane: il cugino disposto a riprovarci e Gino neppure sfiorato dall’idea di partigianare. La guerra l’aveva vista da vicino a Napoli e sul Vivaldi; non riusciva ad immaginare che “andare su un monte con un fucilino servisse a qualcosa”4.

Pagine tratte da: Manlio Calegari, L’eredità Canepa. Il Sessantotto tra memoria e scrittura, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme (AL) 2014, pp. 54-56, 141-142.

  1. In realtà il nome dell’ammiraglio era Biancheri. L’episodio documentato tra l’altro in “Impressioni avute da Manenti Battista dal 6 al 18 settembre 1943, (partenza da Pozzuoli per Genova per i lavori, l’8 settembre, battaglia, affondamento, naufragio e arrivo in Spagna). R.C.T. U. VIVALDI ”. Il diario di Battista Manenti, conservato dalla famiglia, è disponibile in fotocopia presso il Museo storico della città di Bergamo. La sera del 7 settembre all’equipaggio riunito sul ponte “l’ammiraglio Biancheri incominciò col rammentarci la vita passata sul Vivaldi nel 1933, poi rammentò tutte le glorie della Vivaldi, … ma il colpo duro fu quando incominciò col dire: ora che abbiamo parlato di cose belle passate, purtroppo devo darvi una brutta notizia, dopo che avete lavorato tanto per sbarcare munizioni, acqua e nafta, purtroppo li dovete rimbarcale di nuovo per una missione importantissima.” [↩]
  2. [Ibidem] “Alle ore 20 (nda, dell’8 settembre) mentre mi trovavo in macchina di prora a guardia e aspettavo il cambio, in coperta sento che tutti gridano, subito corsi sopra per sapere che cosa fosse avvenuto, appena sporgo la testa su dal boccaporto vedo tutto l’equipaggio che si bacia, s’abbracciava e perfino chi piangeva, io domandai che cosa fosse avvenuto, un coro di voci mi dissero “è finita la guerra hanno firmato l’armistizio!”. Io rimasi a bocca aperta senza poter articolar parola, dopo passato lo sbalordimento corsi giù dalla scaletta in un batter d’occhio e subito gridai ai miei compagni di guardia, “è finita la guerra hanno firmato l’armistizio!”. Tutti rimasero sbalorditi e subito s’incominciò gli abbracci con le lacrime agli occhi dalla contentezza. Però subito intervennero gli ufficiali per poter mettere un po’ d’ordine all’equipaggio, perché noi si doveva partire ugualmente per la nostra missione destinata. Dopo mezzora suona posto di manovra e si parte, mentre si usciva dal porto il comandante incominciò a fare una specie di assemblea, prima ai cannonieri che si trovavano a poppa, poi ai cannonieri e fuochisti che si trovavano al centro e poi a quelli di prora, ci avvertiva che sebbene la guerra fosse finita (come si credeva) il pericolo per noi era sempre uguale, perché i sommergibili che si trovavano in mare e non avvertiti dell’armistizio ci potevano benissimo silurare, dunque, bisognava tener bene aperti gli occhi per non andar in pasto ai pesci proprio dopo finita la guerra….

    (Il 9 settembre) alle ore 10 circa, si avvista la costa sarda, ma mentre stiamo per avvicinarci si siamo visti presi di mira dall’artiglieria costiera che si vede, che era già in mano ai tedeschi, subito si fece dietro front e siamo andati un po’ più al largo, perché ancora non avevamo ordini…”. In seguito ai cannoneggiamenti tedeschi il Vivaldi affondò. Dei circa 280 uomini di equipaggio a “salvarsi” furono in 190, parte dei quali, fatta prigionieri dai germanici venne deportata in Germania. [↩]

  3. All’attivo della sua capacità a cavarsela anche l’episodio seguito al suo imboscamento a Begato. Sorpreso e catturato da una pattuglia di Brigate nere, mentre pascolava la sua capra poco lontano da casa, nella zona dei Forti, li aveva seminati lanciandosi a capofitto in una gola sfuggendo alle fucilate che lo avevano inseguito. Nella notte anche la capra si era rifatta viva. “Non erano intelligenti; non l’avevano seguita e poi chissà che percorso aveva fatto.” [↩]
  4. “Io – m’aveva detto una volta raccontandomi dell’incontro con Luciano – sarei l’eroe negativo che nei romanzi serve per far capire l’importanza dell’eroe positivo che allora sarebbe stato Luciano. In aprile, maggio, quando era rifugiato qui, abbiamo passato notti – l’aria era già tepida, si stava bene – a parlare. Lui mi raccontava di lassù ma io non capivo. Avevo visto navi intere andare a fondo, aerei, cannoni, gente morta che un attimo prima eran lì a parlare con me. Mi sembrava di sapere tutto della guerra e questi che volevano combattere stando sui monti non arrivavo a capirli. Mi sembravano più scemi che coraggiosi. Mi ricordavo – dai tempi che avevo abitato a casa sua – di questo cugino bravo, preciso, silenzioso e non ce lo vedevo andare a mettersi in quelle storie… Pensavo che potesse essere la conseguenza di stare lì, a Bolzaneto, una periferia. Questi qui, poverini – mi ero detto – non hanno capito cos’è la guerra; non sanno ancora niente” (Manlio Calegari, La sega di Hitler, Selene, Milano 2004, p. 10). [↩]

Archiviato in: Gino Canepa, La città invisibile, Manlio Calegari Etichettato con: 8 settembre, anniversari, Battista Manente, lettere, pagine scelte, ricordi

Cronaca di una “calata” sull’ospedale psichiatrico. Reggio Emilia, novembre 1970

10/08/2015

di Piero Colacicchi

Ricordiamo il nostro amico Piero Colacicchi, a un anno dalla sua scomparsa, ripubblicando una sua testimonianza relativa alla prima “visita di controllo popolare” all’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, avvenuta il 23 novembre 1970.

Questo resoconto della prima visita di controllo popolare da parte di un gruppo numeroso di cittadini a una istituzione manicomiale che, per quello che mi risulta, sia mai avvenuta, è stato scritto servendosi di una serie di appunti da me stesso ripresi nei giorni immediatamente successivi, e integrato con interviste e ricerche fatte qualche anno dopo, e parzialmente pubblicate nel libro di Giorgio Antonucci I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria (1986).

Avevo conosciuto Giorgio Antonucci qualche anno prima, nel 1967, quando lui come medico, io come docente dell’Accademia di Belle Arti [di Firenze], collaboravamo nel Laboratorio “La Tinaia” dell’Ospedale Psichiatrico di San Salvi a Firenze, ed io, fin dall’inizio, mi ero convinto dell’importanza delle sue posizioni completamente diverse da quelle di tutti gli altri. Eravamo quindi rimasti in stretto contatto e io seguivo con molto interesse e partecipazione l’evolversi del suo lavoro. Ci legava e ci lega tuttora, in maniera particolare, una profonda indignazione nei confronti di quanto si vede nelle istituzioni psichiatriche e, attraverso di lui, avevo imparato a raggiungere una certa capacità critica nei confronti della psichiatria stessa, tanto che, già all’epoca di Reggio, ne avevo capito il carattere di ideologia puramente repressiva, priva di qualsiasi significato o valore scientifico, alla pari del razzismo. E fu per l’appunto durante la mostra “Libertà nel Mississippi” – mostra di fotografie e opere d’arte – che avevo ideato e poi contribuito a organizzare nel 1964 al Palazzo di Parte Guelfa a Firenze insieme a Mario Materassi e Vicky Halper sotto la direzione di Enzo Enriquez Agnoletti, che conobbi quei collaboratori del prof. Mori, che, l’anno dopo, mi avrebbero chiamato a metter su, come tecnico, il Laboratorio “La Tinaia”.

L’occasione della prima calata (così furono, in seguito, chiamate questa e le successive visite di controllo al manicomio, in quanto iniziate da cittadini della montagna nei confronti di una istituzione posta in pianura e controllata da Reggio) fu preceduta da una lunga serie di giornate trascorse a Reggio durante le quali ebbi modo di visitare ripetutamente il Centro di Igiene Mentale, di incontrare coloro che vi lavoravano, e di parlare con i politici che, in quel periodo, si interessavano al problema del manicomio e della salute mentale sia a Reggio Emilia, sia a Castelnuovo ne’ Monti, sia in altre località della provincia reggiana. Potei così partecipare a tutti i momenti principali che le precedettero.

Di particolare importanza per me, ma forse anche per gli altri che vi parteciparono, fu una giornata trascorsa a girare per i paesi della montagna, circa due mesi prima delle calate, fra Castelnuovo, Cervarezza, e i villaggi più alti, durante la quale incontrammo numerose persone, la cui situazione era stata segnalata al Centro di Igiene Mentale, che rischiavano il ricovero o già ne avevano subiti: li andammo a trovare nelle loro case, vedemmo le condizioni in cui vivevano, ne incontrammo i familiari. Nel paese di Succiso, piccolo gruppo di case sparse fra i monti, facemmo la conoscenza di un anziano operaio edile, ex partigiano, decorato, ormai invalido e solo, che durante gli inverni veniva ripetutamente rinchiuso nel manicomio di Reggio. In poco tempo, mostrandoci le medaglie che si era guadagnato, ci raccontò la storia della sua vita, dall’epoca della guerra allo stato attuale di miseria in cui si trovava, in quel villaggio poverissimo e abbandonato. E ci spiegò come, alle sue richieste di aiuto e alle sue proteste – che, naturalmente, si facevano più forti e più insistenti all’avvicinarsi dell’inverno – gli amministratori rispondevano da anni per mezzo degli psichiatri, segregandolo nei reparti del San Lazzaro.
Tutti quelli che incontrammo ci spiegarono, con la massima lucidità e precisione, il loro stato, che era invariabilmente quello di persone povere, dimenticate e prive di mezzi per difendersi e sopravvivere: il loro ricovero, ci mostrava con chiarezza Antonucci, non rappresentava altro che un modo per far sparire, cioè per eliminare definitivamente il problema morale, e ancor più politico, rappresentato dalla loro esistenza.

Era così, attraverso la ricostruzione accurata delle storie di coloro che si presentavano al Centro di Igiene Mentale o che lui stesso andava a trovare, che Antonucci si contrapponeva alla psichiatria, compresa quella esistente all’interno dello stesso sevizio. In questo modo riusciva a dimostrare come vi fosse sempre un rapporto tra la condizione economica povera, la susseguente estraneazione dall’ambiente culturale di origine attraverso la forzata emigrazione – compresa quella dalle campagne alle città – e l’intervento psichiatrico. E poteva così proporre, invece che internamento e psicofarmaci, soluzioni socialmente concrete e, nel frattempo, solidarietà e aiuto immediato.

Presto anche gli altri componenti del suo gruppo smisero di usare termini psichiatrici sostituendoli con succinte analisi della storia di coloro che si rivolgevano al Centro di Igiene Mentale per aiuto, e l’insieme di tante storie ricostruite correttamente cominciò a dare un quadro della condizione della Montagna molto diverso da quello ufficiale. Gli innumerevoli episodi di ricovero, della cui quantità e del cui significato nessuno si era accorto, ritenendoli casi di malattia separati l’uno dall’altro, visti nel loro insieme e sotto la giusta luce, apparvero come una vera e propria deportazione delle persone più significative e quindi come segnale di una grave oppressione ai danni delle zone più lontane dai centri produttivi. Il risultato di tali indagini non mancò di attirare l’attenzione di importanti personalità della politica locale – regolarmente ricercate e avvisate da Antonucci – che apparvero presto molto impressionate dalla mole di lavoro e dai risultati: cioè dall’effettivo impedimento dei ricoveri.

Nel frattempo l’atmosfera che trovavo al Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia era sempre molto tesa. Era evidente la spaccatura in due gruppi: uno, il più consistente dal punto di vista numerico, era composto da [Giovanni] Jervis, da gran parte dei medici e da vari operatori; l’altro, il più piccolo, era quello di Antonucci. Il primo aveva una impostazione decisamente psichiatrica, moderatamente basagliana – cioè contraria, almeno a parole, al manicomio chiuso – ma favorevole all’uso di psicofarmaci e di altre tecniche psichiatriche, era politicamente collegato alla dirigenza del partito comunista, e quindi a buona parte degli amministratori pubblici di Reggio; il secondo, chiaramente avverso alla psichiatria e quindi a tutti i suoi strumenti, e al suo gergo, era vicino ai gruppi di base del PCI e della CGIL, a esponenti di vari gruppi extra parlamentari, agli studenti e a quei pochi dirigenti del PCI veramente legati agli interessi della popolazione della montagna, agli strati più poveri, ai lavoratori delle fabbriche, agli agricoltori.

È necessario, infine, un breve accenno alla situazione politica generale in cui tutto ciò avveniva. Ci si trovava, in quegli anni, nel periodo in cui i vertici del PCI stavano varando il nuovo progetto di alleanza con le forze conservatrici e in particolare con la Democrazia Cristiana (detto compromesso storico): la divisione interna del Centro di Igiene Mentale di Reggio corrispondeva a quella esistente nella politica nazionale del PCI. Le forze di base vedevano con preoccupazione e a volte con aperta ostilità – specialmente gli operai metalmeccanici, presenti in gran numero a Reggio, che era i più combattivi – l’evolversi del nuovo corso. Il lavoro di Antonucci, e le calate che ne seguirono, con il loro carico di critica esplosiva, non solo nei confronti della psichiatria, ma di tutta la politica che la psichiatria, in parte, riusciva a coprire, arrivò proprio in questo momento di tensione: momento che, da una parte ne rese possibile i risultati, ma che, contemporaneamente, provocò quella reazione dei vertici amministrativi che, nel giro di due anni, avrebbe determinato la fine del movimento e l’allontanamento di Antonucci dall’area reggiana.

Quado mi fu annunciato che stava per avvenire la prima visita di controllo al Manicomio di San Lazzaro mancavo da Reggio da un paio di settimane. I momenti immediatamente precedenti e le vicende che la preparavano mi furono raccontati durante la mattinata stessa da Antonucci, da Giuseppe Garuti, suo collaboratore, infermiere del CIM, e da altri operatori. Seppi così della storia di Santina, che in seguito ebbi occasione di conoscere a Ramiseto, seppi delle riunioni popolari di preparazione, e infine della decisione di scendere direttamente a controllare la condizione dei sei ricoverati provenienti da Ramiseto, e nello stesso tempo di tutto l’istituto.

Il 22 novembre, nel primo pomeriggio, ricevetti una telefonata di Antonucci. Con voce eccitata mi avvertiva che per il giorno dopo era stata organizzata una manifestazione: la visita di un gruppo di persone al San Lazzaro: sul momento non capii bene. Provai a chiedere spiegazioni ma Antonucci mi interruppe per ripetere che dovevo assolutamente essere presente anch’io, e per chiedermi di avvisare altri amici eventualmente interessati. In particolare mi raccomandò che lo comunicassi a Giuseppe Favati e a Enzo Enriquez Agnoletti della rivista “Il Ponte”. Mi piace ricordare, a questo punto, l’estrema disponibilità e il rigore con cui furono sempre accolti e pubblicati i nostri scritti su “Il Ponte” – in genere stesi da Antonucci e a volte pubblicati con i nostri due nomi – particolarmente tenuto conto che il direttore della rivista Agnoletti, con cui avevo avuto più di una lunga conversazione a proposito, non era affatto d’accordo con noi. A differenza di Giuseppe Favati, redattore e factotum della rivista, che fin dal 1967 considerò importanti le nostre posizioni, e dal 1972 in poi, diventando anche lui molto amico di Antonucci, partecipò a vari dibattitti, preparò un libro, Dossier Imola e legge 180 (Idea Books-Edizioni, Milano, 1979) sulle vicende di quell’ospedale e dei problemi che vi incontrava Antonucci e scrisse articoli vari sulla psichiatria.

Ritornando al primo giorno delle calate arrivai a Reggio Emilia verso le otto di mattina e mi feci subito portare al San Lazzaro da un taxi. Faceva freddo e c’era nebbia. Accanto alla rete di cinta, vicino al cancello d’ingresso, aspettavano una quarantina di persone incappottate, alcuni fumando, altri stropicciandosi le mani per il freddo. Riconobbi alcuni che conoscevo e mi diressi verso di loro: insieme ad Antonucci c’erano Giuseppe Garuti, Eugenia Omodei Zorini, il senatore Lusoli, il vicesindaco di Ramiseto Bombardi, Letizia Jervis Comba, Lauro Gilli ed altri componenti della CGIL. Mancava Jervis.

Verso le nove, presenti tutti quelli che ci si aspettava dovessero venire, Antonucci ci guidò verso la portineria e chiese di entrare. Visto che eravamo tanti, il portiere, senza farci passare, avvertì il direttore dell’Istituto Professor Benassi, che arrivò immediatamente. Seguì una lunga discussione, all’inizio della quale Antonucci e il senatore Lusoli, che parlavano per tutti noi, illustrarono la nostra posizione, che era quella, principalmente, di controllare le condizioni in cui vivevano i cittadini di Ramiseto ricoverati nell’Istituto, di cui ognuno di noi aveva la lista dei nomi. Il Professor Benassi, preoccupato e contrario, cercò di persuaderci ad andarcene, dicendo, fra l’altro, che il regolamento gli imponeva di vigilare sulla tranquillità dell’ospedale, e che un numero così grande di persone avrebbe provocato scompiglio nei reparti, mettendo in pericolo la salute dei degenti. Le trattative andarono avanti a lungo senza risultati. Qualcuno cominciò a dire, ad alta voce: “Questo non vuole farci entrare perché ha paura di ciò che possiamo vedere: vuol dire che ha qualcosa di grosso da nascondere”.

Visto che l’atteggiamento del gruppo si faceva sempre più insistente, risoluto, e minaccioso, Benassi decise di cedere e ordinò ad alcuni infermieri di farci strada, ma anche di controllare che nessuno scattasse fotografie, come diceva lui “per rispetto ai malati”. Molti di noi avevano con sé macchine fotografiche e alcuni riuscirono di nascosto a scattare qualche foto. Io ne feci diverse, fra cui una, storta e mal esposta, ma espressiva, di un bambino legato che si protendeva verso Antonucci, fotografia che fu pubblicata nel libro già citato I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria1.

Entrammo, e, dato che nel frattempo si era fatto tardi, decidemmo di dividerci in due gruppi per esaminare ogni reparto dell’Istituto.

Il primo reparto in cui entrai, attiguo alla portineria, ci presentò immediatamente il mondo manicomiale in uno dei suoi aspetti più feroci, e, cosa ancora peggiore, più ordinari: in una grande camera dalle pareti squallidamente vuote un gruppo di infermiere era tranquillamente intento a lavare per terra e a rifare i letti, mentre, legate alle inferriate delle finestre, nove donne quasi nude gridavano e si lamentavano. Alle nostre richieste di spiegazioni, le infermiere risposero, risentite, che dovevano legare le pazienti perché altrimenti avrebbero intralciato il lavoro oppure avrebbero immediatamente sporcato.

Questo spettacolo, e specialmente l’atteggiamento delle infermiere di fronte alla nostra indignazione, ci trasformarono, da incerti e ancora un po’ imbarazzati che eravamo all’inizio, in un gruppo infuriato e deciso a procedere fino in fondo. Da quel momento in poi non passammo davanti ad alcuna porta senza avere controllato la stanza corrispondente.

La cosa che ricordo con maggiore chiarezza, perché per certi versi straordinaria, era l’atteggiamento dei visitatori, molti dei quali contadini e montanari, che sapevo, per esperienze precedenti, essere piuttosto abituati a rapporti di soggezione nei confronti dei medici: in quella occasione, trasformati dalla rabbia di ciò che continuavano a vedere e che proprio non si erano aspettati, cominciarono a dare duri comandi senza esitazione. “Apra quella porta”, “Mi faccia vedere cosa c’è là dentro”, ordinavano: e i medici, con tanto di camice addosso, ma soggiogati dal potere di quelle voci, obbedivano precipitandosi a fare quanto comandato.

Traversammo vari reparti e in vari stanzoni simili al primo trovammo gente legata a letti o a panche.

Antonucci, prima di entrare nell’Istituto, si era raccomandato che noi ci limitassimo ad osservare, e che parlassimo soprattutto con i ricoverati, per chiedere la loro storia e capire com’erano finiti lì dentro.

“Perché non sopportavo di vivere nella mia catapecchia dopo che le bombe mi avevano distrutto la casa e la famiglia”, rispose uno.

“Perché mio marito, disoccupato e spesso ubriaco, era geloso”.

“Perché da ragazzo mi ferii con un coltello a un occhio”.

“Perché non riuscivo a lavorare e ad essere attivo dopo che da partigiano i tedeschi e i fascisti mi avevano obbligato a scavare la fossa per altri compagni, uno dei quali mio amico fraterno. Ricordo che li fucilarono davanti ai miei occhi e mi costrinsero a seppellirli alcuni ancora vivi. Sento di continuo la voce del mio amico che mi si era aggrappato alle gambe chiedendomi aiuto”.

Risultò che la maggior parte dei ricoverati era chiusa là dentro da decine di anni, alcuni anche da oltre cinquanta. Quasi tutti di estrazione operaia o contadina, spesso di famiglie poverissime, e i più analfabeti. (Le stesse storie di uomini, lucidi e disperati, logorati e umiliati dalla reclusione, dalle violenza e dagli psicofarmaci, che avo già incontrato a San Salvi a Firenze, e che avrei veduto anche nei manicomi di Imola, nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, e nei grandi ospedali psichiatrici americani di Belleview e di Syracuse, nello Stato di New York).

Alla fine della mattinata ci dirigemmo verso l’edificio più lontano e più isolato, il reparto De Sanctis, dove venivano rinchiusi i bambini.

Prima di entrare dovemmo sostenere un’animata discussione con le infermiere, ed entrammo solo quando loro si furono assicurate che avevamo il consenso del direttore. Ancora un grande stanzone con panche lungo le pareti vuote, ma questa volta vedemmo ragazzi e bambini, alcuni sull’età di cinque-sei anni, alcuni legati, che piangevano e chiedevano di essere liberati. Ordinammo alle infermiere di scioglierli ma loro si rifiutarono.

Rimanemmo lì un po’ di tempo e cercammo di parlare con i bambini, ma fu difficile, specialmente per l’atteggiamento chiuso e minaccioso delle infermiere, che si intromettevano protestando ogni volta che si provava ad avvinarci.

Dopo un po’, mentre giravo per un corridoio, sentii qualcuno piangere disperatamente, ma non vidi nessuno. Mi sembrò che i lamenti provenissero da dietro una piccola porta metallica. Chiamai Antonucci ed altri e insieme chiedemmo ad una delle infermiere chi fosse chiuso là dentro. “Là dentro non c’è niente” rispose. Le ordinammo di aprire. Dietro la porta, chiuso a chiave in uno sgabuzzino buio di pochi metri, un ragazzino legato ad una sedia piangeva e ci guardava terrorizzato. Inorriditi chiedemmo all’infermiera perché non ci aveva detto che dentro c’era il bambino, e lei rispose che non se lo ricordava. Le chiedemmo perché fosse chiuso là dentro e lei rispose che di recente il bambino era stato operato di tonsille e era tenuto in quello stanzino perché non si facesse del male agitandosi.

Tornando all’uscita trovammo un uomo del gruppo che si era separato dal nostro, all’entrata; e quell’uomo imprecava asciugandosi le lacrime. Era entrato poco prima nel reparto in cui era ricoverato suo figlio e lo aveva trovato nudo in mezzo alla stanza, coperto di escrementi, mentre alcuni infermieri ed il medico, avvisati della nostra presenza nell’Istituto, tentavano inutilmente di lavarlo prima che arrivassimo.

Il giorno dopo, e i successivi, i giornali riportarono le notizie relative alla calata a grandi titoli, commentandole, naturalmente, ciascuno a modo suo.

«La fasciolina del Professor Benassi: alcuni cittadini di Ramiseto entrano al San Lazzaro per vedere come vengono trattati i loro familiari. Posta per la prima volta l’esigenza di un controllo popolare. Dichiarazioni del Dottor Giorgio Antonucci. Bambini piangenti legati alle sedie» (Reggio Quindici).

«Il San Lazzaro è ormai un campo di battaglia: tra chi lo vuole aperto, chi chiuso, e chi non lo vuole assolutamente» (Gazzetta di Reggio).

Nei giorni e nei mesi seguenti uscirono dozzine di articoli, alcuni dei quali su pagine nazionali in giornali come “L’Espresso” e “Paese Sera”.

Naturalmente i partecipanti alla visita all’Istituto tornarono alle loro case in montagne sconvolti da quanto avevano veduto. (“Tu ce lo avevi detto – ripetevano ad Antonucci – ma noi credevamo che tu esagerassi”). Così si sparpagliarono per i paesi vicini a incitare altri ad andare a vedere cosa succedeva al San Lazzaro, e a Ramiseto nacque un Comitato Popolare per coordinare il movimento. Così vennero organizzate le successive quattro calate che portarono nell’Istituto oltre cinquecento persone nel giro di poche settimane. L’ultima, formata in gran parte da operai delle fabbriche metalmeccaniche di Reggio, fu fermata da esponenti del Partito Comunista, in seguito a denuncia del Professor Benassi.

Ma ormai l’argomento “San Lazzaro” aveva invaso tutte le sedi politiche e amministrative della zona. Il movimento contro la psichiatria aveva raggiunto un’ampiezza e una profondità tale, e metteva in luce tali responsabilità, da diventare il problema chiave della situazione politica di tutta l’Emilia. Ampiezza in senso appunto geografico, in quanto coinvolgeva le province di Reggio e di Modena, e accennava ad allargarsi anche ad altre parti d’Italia, perché i temi di fondo, cioè la psichiatria e le responsabilità politiche che essa copriva, avevano un significato non solamente locale. Profondità perché toccava problemi gravi quali le scelte che avevano favorito l’urbanizzazione e l’emigrazione dalle campagne, le difficoltà dei rapporti tra base e vertice dei partiti, e le scelte sindacali.

Nota. Il testo è uscito con il titolo Le calate di Reggio Emilia. Testimonianza di Piero Colacicchi scritta da lui stesso, in Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Prefazione di Thomas Szasz, Sensibili alle foglie, Roma 1993, pp. 69-78.

All’esperienza di Reggio Emilia, e alle “calate”, è dedicato un capitolo del recente volume di John Foot, La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Feltrinelli, Milano 2014 (cap. 17, Sul territorio. Reggio Emilia, 1969-1975, pp. 219-235) di cui storiAmestre e Ateneo degli Imperfetti hanno organizzato una presentazione a Marghera il 16 maggio 2015. A discutere con Foot c’era Christian De Vito, autore di alcune ricerche importanti per conoscere il contesto reggiano di quegli anni: I “tecnici ragazzini”. Operatori sociali, medici e tecnici nei movimenti degli anni Settanta a Reggio Emilia, tesi di perfezionamento, Scuola Normale di Pisa, a.a. 2007-2008; Tecnici e intellettuali dei “saperi speciali” nei movimenti degli anni Settanta a Reggio Emilia, in Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e pratiche del conflitto sociale a Reggio Emilia nei “lunghi anni settanta”, a cura di Luca Baldissara, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008.

  1. La foto è ora disponibile online, pubblicata sul sito del Centro di Relazioni Umane di Bologna, ispirato al lavoro del professore Edelweiss Cotti e con il quale Piero Colacicchi collaborava. [↩]

Archiviato in: La città invisibile, Piero Colacicchi Etichettato con: antipsichiatria, cronaca, Giorgio Antonucci, Reggio Emilia, ricordi

Come si diventa mestrini? Discorso di antropologia urbana

10/06/2015

di Claudio Pasqual

Pubblichiamo il testo della relazione tenuta dal nostro amico e socio Claudio Pasqual all’incontro di studi Uno sguardo psicoanalitico. La città di Mestre negli anni ’50 e ’60, che si è tenuto l’8 maggio scorso presso il Centro culturale Santa Maria delle Grazie di Mestre.

1. Avendo accolto l’invito a essere fra i relatori in un incontro dal titolo tanto insolito e originale, “Uno sguardo psicanalitico. La città di Mestre negli anni ’50-’60”, allo storico trovo che sia richiesto di cimentarsi su un terreno che non è propriamente il suo, vale a dire quello dell’antropologia urbana. Da qui il rischio di schematizzazioni e approssimazioni, per le quali mi scuso anticipatamente.

Quello che mi propongo di fare è gettare uno sguardo su una collettività cittadina che si verrà, dagli anni Cinquanta-Sessanta, lentamente costruendo, sui percorsi di integrazione sociale di una numerosa popolazione di nuovo insediamento, dal particolare angolo visuale degli atteggiamenti mentali, delle psicologie individuali e collettive, da cui conseguono scelte e comportamenti diffusi e osservabili.

[Per saperne di più…] su di noiCome si diventa mestrini? Discorso di antropologia urbana

Archiviato in: Claudio Pasqual, La città invisibile Etichettato con: Cipressina, immigrazione, Mestre, ricordi, storiografia, urbanizzazione, Villaggio San Marco

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