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Il campo rom dell’Olmatello (Firenze), 30 ottobre 1998

08/09/2006

di Filippo Benfante

(Quelli che segono sono appunti scritti "a caldo", il 1° novembre 1998; li ho rivisti una prima volta nel gennaio 2003 e quindi nel marzo 2006 prima di pubblicarli su questo sito. NdA)

Il pomeriggio del 30 ottobre 1998 sono stato al campo rom dell’Olmatello, periferia nord di Firenze. Piero Colacicchi, un amico, attivista nell’«Associazione per la difesa dei diritti delle minoranze», ci è dovuto andare per un’emergenza – una bambina si è ustionata una mano su un cavo elettrico volante –, e mi ha chiesto di accompagnarlo.

All’ingresso ci sono due baracche: una è la portineria dove trovo Demir Mustafà, che ho già incontrato qualche volta sia a Mestre che a Firenze, e un’altra persona, un italiano di cui non ricordo il nome; l’altra è la baracca che accoglie gli uomini della cooperativa incaricata delle pulizie. Quando Piero cerca di presentarmi, Demir, che non mi ha riconosciuto, lo anticipa dicendo «Ah sì, è l’obiettore». Mi spiace: già dato in un centro di salute mentale. Capisco che questo è un altro di quei posti in cui entri se hai una qualifica: rom, assistente sociale, membro del comitato di gestione, consigliere comunale, obiettore di coscienza, sociologo, probabilmente anche «laureando» o «dottorando» vanno bene.

Demir non capisce il motivo della visita di Piero: non sa nulla della bambina. L’altro ragazzo apre un quaderno ad anelli, il diario del campo da quel che capisco, e legge a voce alta un’annotazione. «Mercoledì, verso le sei, la bambina nipote di… si fa male con il cavo elettrico della roulotte di… Chiamato pronto soccorso, ecc.». Appena usciamo dalla portineria, uno avvicina il ragazzo italiano e gli chiede quanto vuole per il suo giubbotto. Vorrebbe comprarlo, perché gli piace proprio. Ma non sarebbe più semplice chiedere in quale negozio ne può trovare uno uguale? Oppure è una messinscena, una parodia per scherzare con i gagi, i non rom, e i loro stereotipi?

Nel campo c’è parecchia agitazione: si contesta il modo in cui sono erogati i servizi (luce e acqua), si protesta per ottenere delle vere case, ma anche sui criteri di assegnazione delle baracche. Davanti a Piero si forma subito una fila: «Hai portato il documento?», «Hai svolto la pratica?», e via così a ogni passo. Ci sono i mediatori: non tutti si avvicinano, alcuni fanno intercedere per loro o lo mandano a chiamare; non tutti chiedono per loro esigenze: lo fanno per un parente (cognato, marito, figlia). Solo una volta ci sono uomini e donne contemporaneamente, altrimenti i gruppi sono divisi per sesso, con l’eccezione dei bambini e dei ragazzi più giovani. La discussione più lunga avviene proprio mentre ce ne stiamo andando, con un signore che si sente truffato nell’assegnazione delle «case mobili», la sistemazione più comoda che si può avere nel campo. Si lamentava dei favoritismi, delle raccomandazioni di cui godono gli ultimi arrivati: lui è in Italia da 16 anni e questi gli passano davanti. Piero mi ha spiegato che, nel periodo in cui sono state fatte le assegnazioni, questo signore si trovava in galera e mi fa capire che è un piantagrane.

Dappertutto si sente musica a volume alto, vedo pentole sul fuoco alle cinque del pomeriggio (cibi che hanno bisogno di sobbollire per ore? orari dei pasti diversi da quelli a cui sono abituato?). Sforzo per immaginarmi il campo senza la luce del sole. Non riesco a capire se ci può essere un’illuminazione sufficiente per le stradine. Oltre la recinzione, vedo i binari della ferrovia. Possibile che sia tutto così tipico, scontato, da stereotipo? Durante la notte, la ferrovia manda luce fastidiosa? Come fanno i bambini a fare i compiti scolastici in quella confusione costante, senza un tavolo, senza spazio nella roulotte, senza luce? Ci sono gruppi di ragazzini che vanno avanti e indietro. Uno in bici attraversa la strada principale del campo, da una parte all’altra, ripetendo sempre lo stesso giro. Piano con il «surreale»: con i miei amici, da piccolo, ripetevo il giro del cortile interno del condominio, chiuso da una cancellata.

Gli uomini sono vestiti all’occidentale, l’abbigliamento differente da come siamo abituati ce l’hanno donne e bambini. Le ragazze mi sfuggono un po’, perché è difficile dare loro un’età. Ci si muove per gruppetti. Tu ti fermi a parlare con qualcuno e si crea un capannello. Il calcio giocato in un pezzo di parcheggio. Donne accovacciate accanto a cestini pieni di patatine, semi, frutta secca. Ma a chi vendono? Chi si ferma a comperare? Eppure ci sono anche tre bar: tre, in un campo che ospiterà una ventina di «case mobili». Uno aveva le salsicce sul fuoco, uno vende solo bibite e snack, uno è attrezzato con tavolini ed è quello che più assomiglia a una delle bettole che trovi in ogni parte d’Italia, con i tavoli quadrati in compensato rivestito di formica e la tovaglia di plastica. Hanno anche i cartelli dei gelati, quelli delle marche industriali più diffuse. I cartelli magari è facile procurarseli, ma vorrei sapere se e come si riforniscono di gelati durante l’estate. Acquisto al supermercato e poi rivendita? Oppure quelle locandine stanno là solo per far finta di vivere come nel resto della città? Mi immagino il camion frigorifero arrivare, coi colori e le movenze delle famose pubblicità televisive, per consegnare una fornitura di stecchi «Magnum» con i documenti in regola, al campo dell’Olmatello.

Archiviato in: Filippo Benfante, La città invisibile Etichettato con: campo rom, descrizione, Firenze, Piero Colacicchi

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